“Viaggi”, Valentino Appoloni (2)

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TITOLO: Viaggi
AUTORE: Valentino Appoloni
EDITORE: ilmiolibro.it

L’AUTORE DICE CHE Viaggi è una raccolta (disponibile anche in e-book) di racconti di fantasia, non privi di riferimenti alla storia e alla letteratura (Kafka, Gautier, Borges sono tra i miei autori preferiti). I protagonisti si trovano in situazioni difficili da decifrare o comunque estreme, di grande pericolo; reagiranno con l’indifferenza, col cinismo o con la chiusura in se stessi. Oppure semplicemente non potranno reagire, perché può succedere che altri abbiano deciso al loro posto.

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IL TESTAMENTO

Diversi segni annunciavano che il maltempo sarebbe stato particolarmente micidiale quella volta. Il fiume si andava ingrossando e da due giorni pioveva incessantemente, anche se la situazione non sembrava ancora grave. Invece, per niente buona doveva essere la salute di Thomas Olski, dato che i suoi principali parenti erano stati frettolosamente chiamati e fatti venire nella solida casa vicino al fiume, dove l’ultracentenario viveva da molto tempo. Gli otto nipoti erano stati convocati, sottolineando che sarebbe stata l’occasione per vedere per l’ultima volta lo zio e per venire informati delle sue decisioni finali. Si trattava di dividere un patrimonio cospicuo, almeno due case e un enorme quantità di altre proprietà. Inoltre, poiché il grande zio aveva condotto attività diplomatiche al servizio del re di Svezia e dello zar, si parlava di preziosi regali personali accumulati in due grandi bauli. Mentre i nipoti, chi a cavallo, chi in carrozza compivano il viaggio, nelle loro menti e nelle loro chiacchiere le ricchezze si centuplicavano: ecco che un nipote raccontava alla moglie della spada donata dallo zar che aveva il fodero luccicante di pietre preziose, mentre nello stesso momento un altro nipote sperava di ricevere le miniere di Lublino oppure qualche tenuta sul mar Baltico. Nonostante il maltempo, il viaggio sembrava comportare disagi piccoli se paragonati al patrimonio da dividere.
Curiosamente, i nipoti, di cui tre accompagnati dalle mogli come richiesto dallo zio, arrivarono a destinazione a distanza di pochissimi minuti tra loro, pur provenendo da posti diversi. Alcuni si attardarono intorno alla casa dove il vecchio aveva scelto di vivere dopo aver lasciato il lavoro, abbandonando definitivamente la città. Sembrava un posto per selvaggi o per coloni, con il fiume vicino e la foresta intorno. Forse tra dieci anni qui sorgerà una piccola città, pensò uno dei nipoti. Il vento gelido non permetteva di restare a lungo all’aperto, comunque il buonumore era diffuso e alcuni entrarono in casa col sorriso sulle labbra, dimenticando la situazione luttuosa in cui si trovavano. I sorrisi si spensero quando gli otto nipoti si trovarono tutti al piano terra, contandosi reciprocamente.
Il vecchio servitore, Plummer, li accolse cerimoniosamente offrendo loro del tè. Erano tutti abbastanza stanchi ma anche vogliosi di ripartire prima possibile. Si guardarono attorno. Sul caminetto crepitava dolcemente un grosso ceppo. C’erano fucili da caccia e sciabole alle pareti. Qualcuno cercò la famosa spada donata dallo zar. Qualche nipote, vedendo che il servitore era molto anziano, chiese ad alta voce se nella casa ci fosse qualcosa con meno di novant’anni. Una signora sbottò: “Piove sempre di più. Allora, dov’è lo zio?”. Il domestico aggiunse legna sul fuoco in modo compassato, poi invitò il gruppetto a seguirlo al piano di sopra, facendo capire che non c’era fretta. In una grande sala si trovava il letto. I nipoti notarono subito che lo zio si era fatto portare i mobili da qualche residenza di città. La bella scrivania e due grandi cassapanche potevano reggere il confronto con il mobilio dell’erede al trono. Alle pareti c’erano lettere incorniciate in cui re e ministri dell’Europa settentrionale lo salutavano con grande rispetto. Le signore si fermarono davanti ad alcune porcellane dai colori vivaci che contrastavano con il legno scuro del pavimento. Indubbiamente, pensarono, non era quello il posto per simili tesori. In fondo alla stanza, nel grande letto c’era il grande zio, dalla carnagione del volto così pallida che quasi lo si poteva confondere con il guanciale bianco. Anche le coperte erano chiare e data l’immobilità dell’uomo, ricordava un monumento sepolcrale di marmo, come se ne commissionavano nell’Italia rinascimentale.
Il domestico si avvicinò al letto fingendo di sistemare le coperte. Poi, dopo aver chiesto a tutti di tacere, iniziò a parlare: “Vostro zio, il nobilissimo Thomas Olski, è venuto meno circa un’ora fa. Avrebbe avuto piacere di rivedervi tutti, dato il grande affetto che nutriva per voi”. Intanto, si notò che accanto al letto c’era un giovane con una piccola valigia. Non era molto più alto del comodino. S’intuì che fosse il medico, accorso per attestare il decesso. Era più emaciato del morto e incredibilmente goffo. Ritenendosi del tutto superfluo, si avvicinò a una delle finestre, poi consultò l’orologio, accennò a un saluto e quindi uscì camminando quasi di profilo, rigido come una marionetta. Nessuno si scostò per farlo passare. Sembrava troppo giovane per essere un medico, forse era solo uno studente. Uno dei nipoti guardò fuori dalla finestra e quindi esclamò: “Il tempo peggiora, cerchiamo di fare presto, Accorciamo l’allocuzione funebre, per favore”. Il servitore, forse per l’età avanzata o per una sua affettazione di modi, parlava molto lentamente e si muoveva ancora più adagio, esasperando i presenti.
“Egregi signori”, riprese con fatica, “il vostro grande zio mi ha incaricato di procedere alla lettura del testamento che riguarda tutti voi. Come sentirete, è necessario che nessuno esca prima della fine della lettura, altrimenti la sua eventuale quota verrà spartita tra i presenti. Questa è la volontà del signor Thomas”. Ci furono mormorii nella stanza, coperti dal vento che tormentava gli alberi vicini e dai nitriti dei cavalli lasciati nella piccola stalla. Iniziò la lettura e dopo dieci minuti i nipoti si convinsero di ascoltare un’autobiografia. Lo zio aveva iniziato al servizio della Casa Regnante di Danimarca per poi passare alla corte degli zar come precettore dell’erede al trono, quindi gli erano stati affidati delicati incarichi diplomatici per i quali rispondeva direttamente al sovrano, poi era stato chiamato all’Accademia reale di Svezia dove aveva insegnato per dieci anni. Quindi era tornato a Pietroburgo, poi di nuovo a Stoccolma, infine, richiamato dagli zar, era stato nella commissione incaricata di negoziare la vendita dell’Alaska agli Stati Uniti d’America.
Il tono monocorde del lettore non facilitava l’ascolto: uno dei nipoti si lamentò apertamente, anche perché l’uomo, temendo forse di mangiarsi le parole o forse per una piccola balbuzie, leggeva sillabando ogni parola. Intanto il fiume cresceva e le acque spingevano contro la riva, sollevando a tratti contro l’argine dei getti quasi verticali. Una signora si era appostata alla finestra e teneva gli altri aggiornati sulla situazione. La pioggia picchiava contro i vetri in modo feroce e si faticava a sentire la voce del domestico. Uno dei nipoti scese al pianoterra per vedere se stava entrando acqua, poi risalì rapidissimo chiedendo se era stato fatto il suo nome. “Macché” fu la secca e sgarbata risposta.
Si stava ancora parlando delle ragioni che avevano spinto il grande zio a vivere appartato vicino alla foresta: il bisogno di riflettere in solitudine sulla vita in generale, la delusione per la meschinità di tanti che aveva conosciuto, la voglia di leggere i testi antichi serenamente. Ogni tanto si ribadiva che chi avesse lasciato la sala sarebbe stato depennato dal novero degli eredi. Quando il domestico si concesse una pausa per bere un bicchiere d’acqua, pausa che sembrò a tutti infinita, scoppiò il finimondo. Uno dei presenti si avvicinò intimandogli di consegnargli il testamento; avrebbe proseguito lui la lettura con maggiore lena. A sorpresa Plummer aprì un cassetto, estrasse un piccolo revolver e disse con calma: “Questo è un dono del signor Thomas per il mio ottantottesimo compleanno: vivendo in un posto isolato bisogna cautelarsi e io sono autorizzato a usarlo contro ogni visitatore molesto, uomo o animale che sia”. Poi, riprese a leggere con la solita irritante flemma. Ogni volta che ripeteva l’espressione “Carissimi nipoti” o “Amati parenti addolorati per la mia improvvisa e inattesa fine”, oppure “Dolcissime mogli dei miei adorati nipoti”, dalla sala prorompevano sbuffi ed strilli. Inoltre, il servitore sembrava poco idoneo a reggere la commozione, dato che ogni tanto si interrompeva per asciugarsi le lacrime e poi contemplava lungamente il volto inespressivo del suo padrone, come se attendesse da lui l’invito a continuare. A tratti sembrava davvero inebetito. Una signora urlò: “Quel vecchio scimunito vuole far morire anche noi, vuol farci fare la fine dei topi!”. Comunque qualcuno che finora non aveva mai parlato, le replicò: “Allora tu e tuo marito potete anche andare via! Io resto”.
Il fiume intanto si ingrossava ancora e qualcuno disse che degli animali selvatici stavano passando veloci davanti alla casa. Mancavano ancora molti fogli da leggere, quando finalmente iniziò il lungo elenco dei beni del defunto, precisando che era stato necessario un anno per inventariarli tutti. L’interesse dei parenti si ravvivò e alcuni si avvicinarono al vecchio speranzosi. Si stava ancora parlando delle proprietà in Polonia, quando si notò che l’acqua stava entrando al pianoterra. Non si poteva più attendere. Il gruppetto si avviò in buona parte verso l’uscita, urlando e imprecando. Una signora tentò di strappare i fogli dalle mani di Plummer che lesto le puntò la pistola, dicendole: “Attenzione, badi che sparare a lei o una puzzola per me è la stessa cosa”. La donna, profumatissima, indietreggiò e prima di lasciare la stanza gridò: “Stupido! Sdentato! Biascica testamenti!”. Plummer, rimasto solo, si mise vicino alla finestra. Calava la sera. Un calesse era stato rovesciato e ora girava come una foglia mossa dal vento, alcuni cavalli impazziti nitrivano senza sosta, il giardino veniva spazzato dal vento e il fiume cominciava a straripare. Molti alberi della foresta si piegavano come archi, poi a causa dell’improvviso cambio di direzione del vento, scoccavano lasciando partire interi rami come frecce. Il fiume portava detriti e materiali di ogni tipo: lunghe assi e grossi tronchi venivano lanciati contro la casa che appariva come un fortino assediato. C’era da immaginare che le segherie poste a monte del fiume fossero state distrutte e ora il corso d’acqua sempre più impetuoso colpiva verso valle. Plummer era incantato dallo spettacolo di distruzione; i fulmini rischiaravano il cielo per lunghi momenti come grandi cicatrici bianche. La natura si stava riprendendo quella porzione di terra senza che la sua furia risparmiasse nulla.
Mezz’ora dopo una voce distolse il domestico: “Ma Plummer, lei non è sdentato!”. Era il signor Thomas. Il servitore si riavvicinò al letto e rispose: “No di certo, signore. Giusta notazione. Spero si senta bene”.
“Direi di sì. I nipoti invece come stanno? Riusciranno a salvarsi?”, chiese vivamente l’ultracentenario.
“Improbabile. Sarebbero dovuti partire almeno un’ora fa per avere qualche possibilità. Non escludo, con un po’ di buona sorte, che si possa vedere qualche corpo passare nel nostro giardino tra qualche minuto. Ma non le prometto nulla, signore”, rispose Plummer.
“In tal caso mi avvisi, ciò che fluttua mi ha sempre appassionato. Mi dica, ho ricevuto segni di affetto?”, insistette il padrone. “Irrilevanti, come previsto d’altronde”, fu la risposta.
“Certo. Possiamo allora essere sereni e non avere rimorso alcuno. Abbiamo riunito le mele marce nello stesso paniere e ora il paniere è a mollo. E la nostra situazione com’è, caro Plummer?”, chiese il signor Thomas allungando con fatica il collo.
“Se continua a piovere anche nelle prossime ore, non avremo scampo. L’acqua sta entrando nel primo piano”, spiegò il domestico e aggiunse: “Mi permetta di complimentarmi per la sua interpretazione. Non ho notato nemmeno un suo movimento. Era davvero immobile”.
“A dire il vero mi ero assopito. Comunque mi spiace che lei debba condividere la mia sorte”, disse con tristezza Olski.
“Lei ha centouno anni, io quasi novanta. Non abbiamo motivo di preoccuparci dell’avvenire. Inoltre, avevamo già definito la questione e io confermo senza rimpianti quello che è già stato deciso. Andremo avanti fino alla fine insieme”, farfugliò con voce tremolante per l’emozione il servitore. Ormai la casa era diventata una sorta di isola circondata da acque agitate, mentre accumuli di ramaglie picchiavano contro le finestre al pianoterra che erano rotte. In un punto si era creato un piccolo mulinello, finché un’ondata del fiume più potente delle altre lo distrusse. Una sella rovesciata, a tratti sommersa da una pesante asse, sfiorò il lato più lungo della casa prima di sparire completamente. All’interno, le fiammelle delle candele accese ondeggiavano nervosamente, mentre fuori il vento e il fiume gareggiavano nel far sentire la propria voce, surclassati solo dal fragore rabbioso del tuono.
“Se hai un nemico, siediti vicino al fiume e aspetta che passi il suo corpo”, disse piano l’ex – diplomatico. Il domestico accese tutte le candele disponibili e tornò ad osservare dalla finestra. Le luci riverberavano sulle armi appese nella stanza: spade, scudi, canne di fucile sembravano riprendere consistenza come porzione di un mondo passato ma ricco di orgoglio e quindi intramontabile. Olski si tastò la barba bianchissima da vecchio patriarca e per un attimo si sentì un nuovo Noè in mezzo al diluvio. Ma nella sua arca c’era solo il suo attempato servitore. Non gli dispiaceva essersi addormentato e aver perso la visione delle facce dei parenti, anche se l’idea era di restare sveglio e ascoltare i loro commenti.
Poi si rivolse al domestico, alzando il più possibile la voce: “Signor Plummer, senza di lei sarei morto per davvero. So che la situazione è difficile, ma sarebbe ancora possibile avere del tè?”.
La furia degli elementi si attenuò un poco, come per permettere che la risposta potesse venire udita. “Tutto sommato, credo sia ancora possibile, signore”, disse con tono distaccato Plummer.

“Viaggi”, Valentino Appoloni (1)

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TITOLO: Viaggi
AUTORE: Valentino Appoloni
EDITORE: ilmiolibro.it

L’AUTORE DICE CHE Viaggi è una raccolta (disponibile anche in e-book) di racconti di fantasia, non privi di riferimenti alla storia e alla letteratura (Kafka, Gautier, Borges sono tra i miei autori preferiti). I protagonisti si trovano in situazioni difficili da decifrare o comunque estreme, di grande pericolo; reagiranno con l’indifferenza, col cinismo o con la chiusura in se stessi. Oppure semplicemente non potranno reagire, perché può succedere che altri abbiano deciso al loro posto.

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18 GIUGNO 1815

Jacques stava dormendo e quindi non vide i due uomini che si precipitavano nella sua stanza per trascinarlo fuori. Potevano essere le dieci di sera. Venne spintonato e poi portato giù per le scale fino al cortile, come se fosse naturale procedere in modo così brutale. Una carrozza aspettava con lo sportello già aperto. Il postiglione era impaziente e teneva la frusta ferma a mezz’aria pronta a vibrarla sui cavalli. Sembrava che tutto il paesaggio notturno fosse sospeso e immobile, in attesa di quel colpo di frusta. Il giovane si ritrovò seduto all’interno, ancora intontito e incredulo. Tutta l’azione si era svolta in modo fulmineo, senza alcuna perdita di tempo e senza che nessuno pronunciasse una parola. Lo schiocco della frusta fu seguito da una partenza repentina che fece sobbalzare Jacques. La carrozza raggiunse subito una velocità elevata e sembrava necessario tenersi saldi per non patirne le conseguenze. “Dove andiamo?” gridò il prigioniero, ma ben presto l’aria che entrava dagli sportelli gli gonfiò la faccia rendendo anche la sua voce molto debole. Gli zoccoli battevano fortissimi sul selciato come se un intero squadrone di cavalleria stesse galoppando. La sagoma del mezzo, illuminata dalla lanterna posta a cassetta, si disegnava sui muri e le case intorno seguendone vorticosamente il profilo. Gli sportelli non avevano vetri e questo aumentava la sensazione di velocità. Dove, in quale posto era necessario arrivare? Perché scapicollarsi in quel modo in piena notte? Il cocchiere doveva essere un pazzo o un ubriaco. Gli sportelli si aprirono e iniziarono a sbattere con violenza. La carrozza correva incurante della strettezza delle strade di Rouen e in qualche punto strisciò contro il muro. Per fortuna non c’era nessuno in giro, dato che niente l’avrebbe fatta fermare o rallentare. Davanti a Jacques stavano immobili i due uomini che l’avevano trascinato fuori dalla sua casa. Apparivano come due masse nere, ferme e tranquille nonostante la scomodità del viaggio. Solo il giovane si teneva con le braccia e le gambe tese verso i lati, in modo da stare saldo, poiché aveva l’impressione di poter venir sbalzato all’esterno in qualsiasi momento. “Perché corriamo così?” provò a chiedere. La risposta arrivò dopo parecchi minuti: “E’ una questione di vita o di morte”. Poi gli sportelli ricominciarono a sbattere mentre l’aria fredda entrava a fiumi. Il prigioniero si sentì un po’ ridicolo in quella posizione, come se fosse crocifisso su due pali a forma di X, ma si era quasi convinto che se avesse lasciato cadere le braccia, la carrozza si sarebbe sbriciolata. Poco dopo, infatti, uno degli sportelli si piegò, perse uno dei cardini, fece un mezzo giro su se stesso e quindi si staccò andando probabilmente a conficcarsi da qualche parte. Sembrava che la carrozza volasse leggermente.
Ora si era fuori dalla città e quindi l’oscurità cresceva. In pochissimi minuti si era già molto distanti dall’abitato. Non pareva davvero il caso di gettarsi giù per non rischiare di rompersi l’osso del collo: allora il prigioniero riprese a interrogare i due uomini che impassibili restavano seminascosti nell’ombra. Sembrava che avessero maschere, a giudicare dai loro volti spigolosi. L’unica frase che uno di loro pronunciò, mentre il cocchiere urlava incitamenti e sferzava brutalmente le bestie, fu: “Lasciate che i morti seppelliscano i vivi”.
Jacques avrebbe voluto reagire, ma si sentiva bloccato sul fondo della carrozza e comunque pensava che prima o poi, per via di qualche guasto, sarebbe stato necessario fermarsi. A un certo punto si abbandonò la strada principale per immergersi in un campo di girasoli, senza che minimamente si avesse la sensazione di un rallentamento anche solo momentaneo. I grandi girasoli, orfani del sole, sembravano piegati come uomini giustiziati col capestro. La carrozza avanzava e i fiori venivano scalzati e proiettati per aria a mucchi, come sollevati da un macchinario impazzito. La fitta vegetazione intorno era molto alta e quindi dall’interno della vettura non si vedeva quasi nulla. Sembrava che insieme alla luce mancasse anche l’aria. Più avanti si attraversò un grosso roveto: i cavalli nitrirono forte per il dolore ma ancora più vibranti furono le urla del conducente. Alcuni rami flessibili si attorcigliarono intorno all’unico sportello rimasto come fossero tentacoli e alla fine anche quello si staccò. Poi si ritornò su una strada e Jacques ebbe l’impressione di poter riprendere a respirare. Ora la rapidità era anche maggiore. C’erano dei bagagli sul tetto della carrozza. Cominciarono a rimbalzare rumorosamente e a muoversi: si aveva l’impressione che ci fossero uomini che battevano i piedi. Evidentemente quei carichi erano stati legati male e finirono per precipitare giù.
“Il signore ha perso il baule!” commentarono i suoi accompagnatori, come se avessero avuto il tempo di prelevare dalla sua casa anche le cose personali che potevano servirgli. Lungo la strada c’erano alberi altissimi e sottili che scorrevano veloci, simili a soldati in fuga di un esercito braccato dal nemico. Ora invece si attraversò un fiume e l’acqua per quasi un minuto invase l’interno. Il cocchiere non smise di gridare finché non si giunse alla riva opposta. Il giovane avrebbe voluto sporgersi e guardare indietro per capire quale mostro infernale obbligasse a quella corsa forsennata. Aveva il cuore in gola e se avesse potuto, si sarebbe lanciato contro la coppia di uomini per scaricare tutta la tensione accumulata. Era impossibile che i cavalli potessero reggere ancora. La stessa carrozza perdeva pezzi. Ora si udivano alcune esplosioni lontane. Sembrava di vedere dei bivacchi nella pianura piatta, mentre piccoli animali selvatici si scansavano al passaggio della vettura che a ogni curva sbandava. Le ruote resistevano incredibilmente ancora. Il giovane notò alcuni uomini armati a lato della strada: poteva essere un posto di controllo, ma la carrozza era stata lasciata passare, come se la sua urgenza fosse giustificata e accettata. Ora si sentiva anche un crepitio di fucileria. Ci fu un’esplosione molto vicina e la luce per qualche istante illuminò i volti dei compagni di viaggio di Jacques. Avevano delle divise militari e sembravano molto malconci. Stavolta non ci fu bisogno di fare domande. Estrassero insieme dei fogli molto grandi e li tennero davanti a sé. Aspettarono pazientemente altre esplosioni in modo che il giovane potesse leggere. In realtà, solo alla luce dei fuochi di un grosso bivacco si poté vedere qualcosa. Jacques lesse ad alta voce su uno dei fogli: “Albert Riot, nato a Rouen il 4 – 4 – 1790 e morto a Quatres Bras il 16 – 6 – 1815″. Dopo aver letto, urlò: “Ma oggi è il 18 giugno 1815! Che cosa significa tutto questo?”. Non ricevette risposte, anche perché la carrozza descrisse bruscamente un semicerchio e nella curva il giovane fu sbalzato all’esterno. Rotolò a terra per qualche metro. Intorno si sparava e c’erano molti uomini che correvano. Si rialzò e vide il cocchiere che staccava uno dei cavalli feriti. Quando risalì a cassetta, gridò: “Il signore è giunto alla sua destinazione. L’incantevole villaggio di Waterloo. Grazie per averci scelto. Ora andiamo, dobbiamo fare altre consegne prima della mezzanotte!”. La carrozza ripartì col solito ritmo, sobbalzando e perdendo qualche altro bagaglio dal tetto. Quindi quel posto si chiamava Waterloo e Jacques aveva un impegno da adempiere in quel luogo, come i due soldati lo avevano avuto a Quatres Bras. Si alzò e tentò un’impossibile rincorsa verso la carrozza, ormai inghiottita dalla polvere e dall’oscurità. Un uomo lo fermò e lo spinse verso la direzione opposta. Da una radura giungevano dei cavalieri, mentre gruppi di soldati sparavano con regolarità. Molti cadaveri giacevano a terra. Un ufficiale a cavallo diede indicazioni a Jacques che solo in quel momento si accorse di essere in divisa. Cercò nella giubba per vedere se aveva un foglio analogo a quello dei suoi compagni di viaggio. Non gliene lasciarono il tempo e si ritrovò in un quadrato di uomini . La cavalleria nemica attaccava a singhiozzo e veniva abbastanza facilmente fermata. Oltre il bosco si sentivano tuonare dei cannoni quasi ininterrottamente. Il giovane sparò i suoi primi colpi di moschetto e si fece prendere da una certa ebbrezza. Un cavaliere disarcionato spirò poco lontano, mentre un’altra carica veniva respinta. La polvere delle fucilate non si disperdeva, ma Jacques sembrava sentirsi a suo agio e chiese al soldato più vicino: “Questa è veramente una battaglia?”.
Alcuni tiratori nemici si dovevano essere appostati bene, perché sul quadrato cominciavano a piovere dei colpi precisi. Anche alcuni cavalieri sparavano con dei corti fucili, prima di lanciarsi al galoppo. Non restava che indietreggiare e serrare i ranghi. Passò molto tempo e lo scontro divenne sempre più cruento. All’improvviso si udì un rumore alle spalle dei soldati: era la carrozza che giungeva. Ora era del tutto scoperchiata ed era tirata da due soli cavalli. Ne scesero bruscamente tre uomini e il cocchiere esultò: “Eccovi i rinforzi! Per oggi abbiamo finito le consegne!”. Il giovane si fece avanti e venne riconosciuto dal postiglione che sembrò perplesso. Consultò l’orologio e disse: “Ci siete ancora voi? Sono le undici e cinquantuno del 18 giugno. In effetti, mancano nove minuti. La consegna è stata eseguita correttamente. Temevo ci fosse un errore che è sempre possibile. D’altronde, guardate con che razza di mezzi ci fanno lavorare!”. La scalcinata carrozza ripartì rapidamente. Jacques riprese il suo posto nel quadrato che ormai era ridotto a un pugno di uomini. L’ufficiale a cavallo continuava a incitare i suoi soldati, mentre i nuovi arrivati si aggregavano. Due cavalieri puntarono decisi sul gruppetto. Ormai si sparava sempre meno. Prevalevano i corpo a corpo. Quando i due nemici furono davanti agli uomini, l’ufficiale li attaccò con la sciabola e i resti del quadrato sollevarono i fucili con le baionette, tenendo il calcio dell’arma puntato a terra. Prima che vi fosse un contatto tra loro, un proiettile di mortaio esplose vicinissimo, lasciando tutti a terra.
In quel momento erano le 11,59 del 18 giugno 1815.

“Il Fiore Nero”, Simone Turri (3)

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TITOLO: Il Fiore Nero
AUTORE: Simone Turri (BIO) (con Daniela Mecca)
EDITORE: Edizioni Montag

L’AUTORE DICE CHE Il Fiore Nero è un’antologia di sette racconti, sette sguardi sul sentiero percorso dal Male, un sentiero nel quale non ci sono né vincitori né vinti, ma solo una sofferenza che non dà tregua.

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LA PANCHINA

È Natale e c’è aria di festa. Le luci degli addobbi ammiccano scintillanti donando un pizzico di serenità e spensieratezza nei cuori della gente che passeggia a braccetto per le vie soffermandosi di tanto in tanto ad ammirare vetrine che invogliano all’acquisto di ogni genere di prodotto. Qualche raro fiocco di neve scende calmo dal cielo grigiastro tramutandosi in gocce d’acqua prima di adagiarsi al suolo ormai umido. Una coppia d’innamorati passeggia sorridendo fra loro: sembrano felici, anche se una punta di malinconia si stende come una coperta di rughe sul suo volto mentre lei gli accarezza la guancia amorevolmente. Una signora anziana dall’altro lato della strada cammina a fatica stringendo il guinzaglio del suo cagnolino Birba, il quale si protegge dal freddo grazie al suo cappottino rosso. Birba cerca di far affrettare il passo alla signora perché odia bagnarsi il pelo grigio lucido perennemente ben curato.

Un agente di polizia intento a dirigere il traffico a un incrocio scruta nervosamente il suo orologio da polso impaziente di terminare il proprio turno lavorativo per festeggiare l’avvento assieme alla famiglia.

Fa freddo e anche le vetrate a specchio dei grattacieli sono appannate mentre quelle illuminate rivelano la presenza d’instancabili stacanovisti che con tutta probabilità hanno scordato la magia di questa festa.

In un parco molto grande con alberi secolari, fontane prosciugate che d’estate si rianimano di acqua vitale, con bimbi urlanti che giocano a rincorrersi mentre mamme apprensive li seguono con lo sguardo vigile, con signori intenti a leggere quotidiani seduti sulle classiche panchine di legno verdi, con donne che spettegolano fra loro, animate dalla classica volontà di saperne sempre di più, c’è una panchina diversa da tutte le altre per il semplice fatto che quella è la panchina.

A prima vista potrebbe sembrare una panchina normale, come tutte le altre presenti in quel parco e in altri del resto del mondo: un’anima di ferro arrugginito con dei riccioli eleganti a terminare i braccioli. Dei listelli robusti di legno verniciato verde che seguono armoniosamente l’un l’altro pronte per accogliere la linea del corpo della persona che vi prenderà posto. Ogni panchina ha una o più storie da raccontare e ogni panchina ha un’età. La panchina c’è sempre stata, anche se in altre epoche la sua forma non era quella di oggi e le storie che ha da raccontare sono l’espressione più intima dell’umanità. Anche i “passeggeri” della panchina hanno caratteristiche diverse fra loro: bambini, adolescenti, uomini e donne, anziani … tutti hanno avuto a che fare con Lei e tutti in seguito hanno incontrato la morte.

“Il Fiore Nero”, Simone Turri (2)

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TITOLO: Il Fiore Nero
AUTORE: Simone Turri (BIO) (con Daniela Mecca)
EDITORE: Edizioni Montag

L’AUTORE DICE CHE Il Fiore Nero è un’antologia di sette racconti, sette sguardi sul sentiero percorso dal Male, un sentiero nel quale non ci sono né vincitori né vinti, ma solo una sofferenza che non dà tregua.

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IO VOGLIO TE

Si è indotti a credere che, ai giorni nostri, con le conoscenze e le tecniche avanzate del sapere, il male sia stato solo un espediente per creare timore e controllo sul genere umano, ma, se così fosse, come mai puntualmente, ogni giorno, le persone in tutto il mondo scompaiono nel nulla senza lasciare traccia? Come si spiegano certi gesti estremi di madri apparentemente normali che un giorno si svegliano e uccidono a sangue freddo i loro figli? Zii che violentano nipoti, donne che, mosse dall’invidia, stroncano la vita di altre donne per futili motivi? Ragazzi che si tolgono la vita perché incompresi e soli? Giovani che, per noia, ne tormentano degli altri in nome e per conto del maligno? Nessuno, se non è coinvolto in prima persona, può dare una risposta a queste domande. Perché si è così portati al nero? Perché, se davvero si possedesse il candore del Padre Celeste, in quanto suoi figli, si è attratti dall’oscurità?Si potrebbe riassumere tutto in una sola frase: maledetto il libero arbitrio.

“Il Fiore Nero”, Simone Turri (1)

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TITOLO: Il Fiore Nero
AUTORE: Simone Turri (BIO) (con Daniela Mecca)
EDITORE: Edizioni Montag

L’AUTORE DICE CHE Il Fiore Nero è un’antologia di sette racconti, sette sguardi sul sentiero percorso dal Male, un sentiero nel quale non ci sono né vincitori né vinti, ma solo una sofferenza che non dà tregua.

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MORS TUA VITA MEA

Si dice che addormentarsi sia un po’ come morire e forse è vero. I sensi si affievoliscono e si rilassano. Il corpo cade in una sorta d’immobilità apparente mentre le funzioni vitali proseguono il loro lavoro perché, fino a prova contraria, ci si trova in una situazione di stallo fra la vita e la morte. C’è chi interpreta i sogni e intuisce significati nascosti attraverso simbolismi o chi semplicemente attribuisce la loro manifestazione a una specie di proiezione di suggestioni che avvengono durante la giornata di un individuo.
Esistono varie tipologie di sogni: i premonitori, quelli lieti, quelli che riguardano il passato e gli incubi e c’è chi crede che i sogni ai quali non si riesca a dare una spiegazione, e che apparentemente non abbiano senso, si riferiscano in realtà a vite vissute in precedenza.
La vita e la morte di Josef Meier è un chiaro esempio di come si possano vivere più esistenze parallele e di come, soprattutto, siano reali l’aldilà e gli inferi.